“L’aiga ae corde!”

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Per abbellire piazza San Pietro, nel 1586 Papa Sisto V volle istallare l’obelisco al centro del colonnato, così come lo vediamo oggi. Le sue 350 tonnellate di peso e 25 metri di altezza rendevano particolarmente difficile l’operazione: poteva spezzarsi a metà.

Più di 800 uomini lavorarono con l’aiuto di funi, argani e carrucole. L’azione era così delicata che si ordinò alla folla di non parlare o gridare. Il primo che avesse fiatato sarebbe stato condannato a morte (in un posto vicino si fece istallare una forca).

Purtroppo, nel momento di maggior tensione, le corde cominciarono a surriscaldarsi: la frizione con gli argani le stava rovinando velocemente. Tutti si accorsero del pericolo, ma rimassero in silenzio. Soltanto una voce si azzardò a gridare: “Daghe l’aiga ae corde!” (bagnate le corde!, in dialetto ligure). Le corde si raffreddarono e l’operazione finì bene. Chi aveva osato parlare era Benedetto Bresca, un marinaio di San Remo. Fu arrestato subito, ma il Papa non soltanto annullò la condanna, ma gli diede una generosa ricompensa.

La frase “Acqua alle corde!” si usa ancora oggi per ricordare l’importanza di parlare in modo risoluto a tempo opportuno, anche mettendo a rischio la propria reputazione o subendo qualche ingiustizia.

Parlare a tempo opportuno è un’arte difficile. Tacere risulta spesso l’atteggiamento più prudente -e così ce lo ricordano la Bibbia e i detti popolari-, ma in occasioni tacere è sbagliato e soltanto contribuisce ad accumulare tensioni che -come le corde dell’obelisco- prima o poi si libereranno. L’estremo opposto, parlare troppo o parlare male, è ugualmente sbagliato. Ma tra il silenzio colpevole e la critica acerba c’è una linea sottile chiamata dissenso: manifestare con rispetto che non si è d’accordo.

In un’epoca di polarizzazioni, toni forti e dibattiti frettolosi, è diventato difficile dissentire da chi condivide la nostra visione del mondo (affinità politica, membro della stessa famiglia ecclesiale, collega di lavoro, ecc), perché il dissenso è spesso visto come un segnale di tradimento, una concessione al nemico, una crepa nell’unità. Questi scambiano l’uniformità, che soffoca le differenze, per l’unità, che è capace di accoglierle.

Dissentire è dimostrazione di fedeltà, perché volendo restare uniti non si nascondono le differenze. Si farà con delicatezza, senza sacrificare la carità nell’altare della verità; cercando il momento giusto e gli interlocutori opportuni, limitando il dibattito al motivo del dissenso. Inoltre, serve accettare pacificamente che la nostra opinione non sia accolta: se rimaniamo convinti del nostro parere, possiamo sperare che tutto sia servito per avviare un lungo processo.

Apriamo spazi per il dissenso, in famiglia, nelle comunità, nel lavoro: saranno quei secchi di acqua che allevieranno le tensioni che si generano in qualsiasi intreccio di relazioni. Solo così potremmo innalzare grandi opere insieme agli altri.

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