Possono le reti sociali migliorare la vita?

Non sono molte le domande che attraversano tutte le culture di tutti i tempi e richiedono una risposta da ogni uomo. Ma una di esse è la domanda su come vivere una vita bella e dare senso ai propri giorni. Si tratta di una questione esigente e inevitabile. Sappiamo fin dagli antichi che le virtù sono la via per ottenere una vita riuscita, una vita eccellente; coltivarle è un compito personale, che risulta condizionato fortemente dal contesto sociale e culturale nel quale vive ogni persona. 

Nei nostri tempi, lo sviluppo tecnologico -in particolare, quello digitale- ha un forte influsso sui tre principali scenari di acquisizione delle virtù, su quei “mondi da abitare”, che sono: il rapporto con gli altri, la conoscenza della realtà e la scoperta di noi stessi. In questo intervento vorrei riflettere sull’impatto della rete nella trasmissione e assimilazione dei valori, in particolare tra i giovani. Sono le reti sociali un ostacolo all’aretè, alla vita eccellente? Oppure possono diventare un aiuto?

Prima di abbordare l’argomento principale del mio intervento, vorrei fare alcune considerazioni sul titolo di questa giornata, considerazioni che ci aiuteranno a inquadrare meglio il tema delle reti sociali. A continuazione, vedremo alcune caratteristiche della società contemporanea e parleremo sulle difficoltà che trovano le nuove generazioni, dovute in parte allo sviluppo tecnologico. Per ultimo, mi soffermerò sui limiti e le opportunità che presentano le reti sociali per la crescita dei valori.

  1. Abitare per mettere radici

“Abitare il mondo, abitare i mondi”, dice il titolo di questa giornata di studio. Il termine abitare si usa in lingua latina per significare il fatto di “avere”, di “possedere”, e più specificamente di “possedere il posto nel quale si vive in modo permanente”. Questo senso di permanenza si utilizza nelle fonti letterarie più antiche: ad esempio, quando viene annunziato a Gilgamesh il grande diluvio, dice agli uomini: “Voglio scendere giù negli abissi marini, e là abitare con il mio signore Enki” (tavola XI, 39-40); Socrate nel Gorgia dice che “chi abbia vissuto in modo giusto e santo, una volta morto, vada ad abitare nelle Isole dei Beati”; oppure il salmo 22 afferma: “abiterò per sempre nella casa del Signore”, che vuol dire rimanere per sempre nel Regno di Dio, così come promette la fede cristiana. Quindi abitare è possedere il luogo dove si vive. 

Ma per possedere un luogo serve avere le capacità necessarie per mettere radici, condizione essenziale di una vita bella, felice, fruttifera. Soltanto chi possiede i valori può farlo, il resto è alla ricerca. C’è una scena molte volte citata dell’Odissea che illustra che, per essere felici, abbiamo bisogno di un posto che ci appartenga, un posto che può essere sia fisico che affettivo. Si tratta di un passaggio molto conosciuto: quando Ulisse arriva a Itaca dopo il suo lungo viaggio, sua moglie non lo riconosce. È una scena tragica, perché Penelope arriva a dirgli: “Tu sei un demone!”. A continuazione caccia via Ulisse dal posto che più gli appartiene e più desiderava, dalla sua -appunto- abitazione.

Proprio là, al centro della stanza nella quale l’eroe non viene accolto, c’è il letto che per anni aveva condiviso con Penelope. Se ricordate, la particolarità di quel letto è che era proprio radicato a terra, perchè fatto a partire di un ulivo cresciuto in quel posto. Penelope, diffidando di chi sosteneva essere suo marito, gli chiede di spostare il letto. “Donna -risponde Ulisse- queste tue parole mi rattristano. Chi può spostare il mio letto? (…) Tra gli uomini, neanche il più forte lo potrebbe spostare senza fatica, perché il letto nasconde un segreto, io stesso lo fabbricai e nessun altro. Nel cortile c’era un ulivo con la sua cima frondosa, florido e rigoglioso; era grosso come una colonna: attorno ad esso costruii la stanza”.

Soltanto quando Ulisse rivela il segreto conosciuto da loro due, gli occhi di Penelope vedono le virtù dell’eroe -la sua fedeltà, la sua intelligenza-, che lo fanno degno di possedere la propria abitazione. “Lei -continua l’Odissea– fu subito mossa dalla commozione, perché capì che costui era certamente Odisseo; e piangendo, corse verso lui a braccia aperte”. Il letto -che simboleggia l’amore intimo tra Penelope e l’eroe- è la destinazione finale del viaggio di Ulisse, il grande viaggiatore, che non ha abitato veramente -non ha messo radici- da nessun altro posto, perché in tutti era di passaggio. Il focolare di Ulisse è il posto al quale appartiene veramente, quello dove ha messo radici, dove trova la stabilità necessaria per poter amare. 

Anche se dovremmo parlare di Tik-Tok, di YouTube e di Instagram, con questa storia volevo sottolineare la prima idea: ed è che per avere una vita bella, serve poter “abitare il mondo”, vale a dire, avere la capacità di possederlo, di mettere radici. E per fare ciò, dobbiamo sviluppare i valori che ci aprono agli altri e ci rivelano a noi stessi. 

Per contra, la società attuale sembra non favorire ambienti per crescere serenamente. Infatti, è stata definita con l’acronimo VUCA: vulnerable, uncertain, complex e ambiguous, aggettivi che dipingono un panorama sociale particolarmente fragile. È possibile mettere radici in un mondo che cambia costantemente? Sono i valori del mondo fisico validi per il mondo virtuale? È possibile avere oggi riferimenti morali solidi quando con un gesto del dito sullo schermo si aggiornano senza sosta le proposte di valori?

  1. Trasmissione di valori nella società contemporanea

Prima di concentrare l’attenzione sulle reti sociali, può essere utile fare alcune riflessioni sulle giovani generazioni alle quali vogliamo trasmettere i grandi valori. Nel libro “The Coddling of the American Mind: How Good Intentions and Bad Ideas Are Setting Up a Generation for Failure”, Haidt e Lukianoff spiegano che le generazioni di giovani che ora arrivano all’università hanno ricevuto tre idee false che stanno difficoltando loro una giusta maturazione. Sono queste:  1. Ciò che non ti uccide ti rende più debole (un atteggiamento che loro chiamano “la falsità della fragilità”); 2. Fidati sempre delle proprie sensazioni (la falsità del ragionamento emotivo); 3. La vita è una battaglia tra persone buone e persone malvagie (la falsità del “noi contro loro”). Sarebbe troppo lungo soffermarsi sulle origini e sull’evoluzione di ognuna di queste proposte, per cui semplicemente faremo un accenno al modo in cui stanno intralciando la trasmissione dei valori. Nel terzo punto della esposizione vedremo che tanto di responsabilità hanno le reti sociali nella nascita e crescita di queste tre falsità.

 Il primo elemento, la falsità della fragilità, è conseguenza dell’iperprotezione che sperimentano i giovani, a chi stiamo risparmiando quei pericoli della vita che fanno maturare, facendogli diventare fragili. La sovraprotezione è uno dei “problemi del progresso”, secondo gli autori citati. È vero che i giovani sono stati sempre deboli -pigri, svogliati-, ma la debolezza è diversa della fragilità. Le generazioni attuali sono fragili: di fronte alle pressioni esterne o interne, si rompono prima. Per questo, un altro autore, Nassim Tale, ha proposto il concetto di antifragilità. Secondo lui, ci sono oggetti fragili che cadono e si rompono; ad esempio, un vaso di porcellana. Ci sono oggetti resilienti, che cadono ma la loro consistenza impedisce che si rompano: è il caso dei bicchieri di plastica. E ci sono, per ultimo, altri oggetti che si devono rompere: sono le cose antifragili. Si tratta di quelle realtà che si trasformano per il meglio quando vengono sottomesse a forze estreme, perfino violente. Un esempio di antifragilità è la salute di un bambino, che si deve ammalare affinché il suo sistema immunitario impari a riconoscere le malattie e possa reagire di conseguenza. Anche per maturare e crescere nei valori, serve l’antifragilità. Purtroppo, è stato osservato che i giovani della cosiddetta iGen -i nati tra 1995 e 2012- quando devono rischiare, spesso rinunciano. Oltre all’iperprotezione, ascoltano spesso discorsi catastrofisti, che spengono la speranza in loro, togliendogli la voglia di osare, di prendere rischi, di fallire. A volte si sente dire a una persona adulta: “Ho paura del mondo che lascerò ai miei figli”; e in quelle occasioni, viene da pensare: “Ho piuttosto paura della paura che hai trasmesso ai tuoi figli”… 

 La seconda falsità che abbiamo menzionato invita a “fidarsi sempre delle proprie sensazioni”, un comportamento che Alasdair MacIntyre ha chiamato emotivismo, che è leggermente diverso dal sentimentalismo. Il sentimentalista da molta rilevanza ai sentimenti, mentre che l’emotivista si caratterizza perché distingue il bene dal male in funzione dei sentimenti. Per lui o lei, i sentimenti sono il criterio principale di giudizio morale. Per esempio, un ragazzo mi diceva non molto tempo fa -in una chiacchierata informale- che non aveva problemi di coscienza nel tradire la sua ragazza. Io gli chiesi come reagirebbe se venisse a sapere un giorno che la ragazza a sua volta lo tradiva. Mi disse: “Ah, certo, mi sembrerebbe male”. Ci fu un momento di pausa, e poi continuò: “Lo so, non è logico e capisco che è un controsenso, ma io la sento così”. Io la sento così: di fronte a questo argomento, chi eravamo io o la sua coscienza per sostenere il contrario?

 La terza falsità consiste nel credere che “la vita è una battaglia tra persone buone e persone malvagie”. Questa opinione è una conseguenza logica delle due falsità già trattate: la fragilità e l’emotivismo. Se mi sento fragile, vedrò come una minaccia chi non la pensa come me o mi contraddice, e mi chiuderò a ogni dialogo o argomento razionale. Tutti abbiamo la tendenza all’aggregazione tribale, ma se prima era limitata dal senso comune, ora sembra guidata da fenomeni più viscerali. Il relativismo ereditato dal secolo XX, la polarizzazione sociale in argomenti che richiedono zone di dialogo grigie –dove non tutto è bianco o nero– e la perdita di rilevanza di alcune figure che prima avevano una autorità indiscussa -come il padre, i professori o i sacerdoti- hanno provocato che le nuove generazioni manchino di riferimenti e abbiano un atteggiamento costante di sospetto e un senso critico più spiccato. Aiutare loro, in questa situazione, diventa un compito ancora più difficile.

Fragilità, emotivismo e tribalismo critico sono alcuni dei tratti delle generazioni più giovani con le quali vogliamo condividere i valori. Nel prossimo punto, vedremo che ruolo hanno le tecnologie digitali nella interazione con il mondo e nel possibile sviluppo di queste tre falsità.

  1. Le tecnologie: dal saper fare al saper vivere 

 Come abbiamo già accennato, la tecnologia digitale è uno degli elementi che modellano in modo più radicale la società contemporanea. La domanda ora sarebbe: ci aiutano le tecnologie ad “abitare il mondo” oppure stiamo perdendo il controllo? Per rispondere a questa questione, dobbiamo interrogarci prima brevemente sul senso antropologico della tecnologia. Nicholas Carr sostiene che le tecnologie sono “l’estensione della volontà dell’uomo”. Le utilizziamo per adempiere i sogni della nostra volontà, sogni ai quali non saremmo mai arrivati con le nostre sole forze umane: l’orologio ha permesso all’uomo di avere il controllo del tempo; l’aereo ci ha fatto volare; le bussole sono servite a dominare la geografia; il motore ha aumentato la nostra forza e velocità; eccetera.

A che sogno della volontà risponde internet? A giudicare per la velocità con cui si è estesa la rete intrufolandosi in ogni ambito della nostra vita, internet offre una risposta molto autorevole per i nostri desideri. In concreto, il pregio della rete è che stimola e moltiplica le nostre relazioni (perciò la chiamiamo così: la rete, cioè, un intreccio di relazioni). Internet risponde al profondo desiderio dell’uomo di entrare in relazione con gli altri e con il mondo. Infatti, ci mette in contatto non soltanto con altre persone, ma anche con le cose. Lo collega tutto. Se vado a correre, internet calcola la mia velocità, unisce il mio percorso a un luogo geografico, e invia il risultato ad altri miei amici che corrono. In più, mi spiega se ho fatto meglio o peggio della volta precedente, aumentando la mia autostima o -il più delle volte- scoraggiandomi un po’. Tutti i dati che producono la mia corsa vengono intrecciati con il mondo, con gli altri, con la geografía, con il passato…

Apparentemente, la capacità di collegarci con tutto, con tutti e costantemente, può essere un valore molto positivo. Di fatto, pochi di noi potrebbero sopravvivere un solo giorno senza il collegamento alla rete, perché abbiamo delegato in essa molte delle nostre relazioni quotidiane. Non a caso, il termine tecnologia proviene dalla parola greca τέχνη (techne), che significa “saper fare”, cioè, avere una abilità manuale, pratica; così, gli strumenti sono tecnologici quando ci aiutano a fare le cose in modo più efficace. E, veramente, la tecnologia digitale è molto efficace, forse fin troppo efficace.

Questo intreccio tra le cose e le persone tessuto grazie a internet sta creando uno spazio virtuale, alternativo, che coesiste con lo spazio fisico. Sapranno di cosa sto parlando se hanno mai interrotto alla forza a un ragazzo quando stava giocando con il telefono, ad esempio strappandoglielo di mano. Il ragazzo non stava semplicemente giocando. Lui era nello spazio virtuale, e la sua reazione iniziale sarà sicuramente di sconcerto e, solo dopo, di arrabbiatura o resignazione. Queste situazioni di “assenza mentale e affettiva” dal luogo fisico e di “presenza” nel contesto virtuale sono ogni volta più abituali.

Se è vero che la rete ha creato un luogo, Internet non sarà soltanto una questione tecnica, ma anche etica. In confronto al techne, al “saper fare”, l’etica (ἦθος) si occupa dal “saper vivere”, sebbene nella sua origine etimologica la parola ethos indicava anche “il posto da vivere”, cioè, da abitare. Infatti, per poter vivere nella società digitale, serve coltivare quelle virtù che ci fanno crescere umanamente anche nello spazio virtuale e così metterci radici, cioè, farlo nostro. Il mondo fisico e virtuale sono strettamente intrecciati, fino al punto che il 45% dei giovani europei si sentono nervosi se non hanno a mano lo smartphone (questa reazione ansiosa si chiama nomofobia).

Protagoniste indiscusse di questo spazio virtuale sono le reti sociali -in particolare, Instagram, Youtube e Tik Tok–, piattaforme digitali dove le generazioni giovani, e non solo, spendono più tempo. Le ragazze ci abitano questi luoghi per coltivare amicizie e mantenere il rapporto con i loro contatti; mentre i ragazzi, invece, prediligono i contenuti divertenti o curiosi e interagiscono di meno.  Vengono usate da 4,5 miliardi di persone al mondo (il 59% della popolazione totale), in particolare in Asia e la media di tempo di uso è di 2 ore e mezza al giorno. 

 Il documentario di Netflix intitolato “The Social Dilemma” ha rivelato al gran pubblico il problema principale di queste reti, ed è che sono state proiettate per catturare in modo progressivo la nostra attenzione, sfruttando i meccanismi della nostra psicologia, facendo leva sulla curiosità, la sorpresa, le piccole ricompense, i voti positivi degli altri, la conferma delle nostre opinioni, eccetera… Così, le reti ci persuadono a farne un uso frequente fino a che diventiamo, in alcuni casi, dipendenti. Instagram, TikTok o Youtube usano queste tecniche di persuasione non per cattiveria, ma per sopravvivere nella così chiamata economia dell’attenzione: un contesto dominato dalla sovrabbondanza informativa dove ogni mezzo deve catturare per più tempo possibile l’attenzione delle persone e così attirare pubblicità e ottenere guadagni. 

Per molte persone, le reti sociali sono uno degli scenari principali per rapportarsi con gli altri e proiettare la propria identità, o almeno l’identità che vorrebbero offrire idealisticamente. In queste piattaforme lodiamo, insultiamo, invidiamo, incoraggiamo, critichiamo, ci informiamo, aiutiamo, desideriamo… In questo modo, lo spazio fisico e virtuale trovano continuità nel soggetto che le abita, nella persona, che è sempre la stessa e accresce o indebolisce le virtù attraverso le operazioni che realizza e l’intenzione con cui le fa, con indipendenza che siano online o offline. 

Dopo aver concluso che le reti sociali hanno intrecciato un mondo di relazioni virtuali che sono anche un luogo etico -cioè, un luogo da abitare- vediamo i limiti e le opportunità che concedono alla trasmissione di valori. 

  1. Limiti delle reti sociali

 Anche se si potrebbero menzionare molti problemi provocati dalle rete sociali, ci limiteremo a commentare soltanto alcuni collegati alle tre falsità già menzionate:

  1.  Il primo problema è che Le reti incidono sulla fragilità dei ragazzi e delle loro relazioni. Uno studio su 5.000 persone ha rilevato che un maggiore utilizzo dei social media è correlato a un calo della salute mentale e fisica e della soddisfazione di vita. Anzi, i ragazzi che passano più di due ore davanti agli schermi hanno più possibilità di sviluppare depressioni. Non a caso, c’è un aumento particolare di casi a partire dal 2011, quando la generazione iGen è entrata nell’adolescenza. 

Nelle reti, il confronto tra la propria vita e gli spezzoni di vita che mostrano gli altri non aiuta l’autostima. In un momento della crescita personale in cui la propria identità si costruisce a partire dal confronto e dall’opinione degli altri, un’esposizione pubblica tanto ampia può diventare una fonte di ansia. Le informazioni che otteniamo dagli altri questionano in continuazione noi stessi. Di fronte a un mondo che si presenta con tutta la sua complessità e di fronte a modelli troppo perfetti, la propria mediocrità può deludere e, in alcuni casi, paralizzare il ragazzo o la ragazza nel compito necessario di cercarsi un posto nel mondo con i propri talenti. 

Ci sono due modalità particolari di questo stress relazionale, conosciute come FOMO (Fear of missing out) e FOBLO (Fear of being left out), quindi la paura di non essere informato di qualcosa e la paura di essere ignorato. Ricevere un like, un commento o un emoticon genera un rilascio di dopamina simile a quello di tante altre piccole soddisfazioni, ma che dura poco e perciò richiede un costante feedback approvativo degli altri. Secondo Sherry Turkle, autrice del libro “Insieme ma soli”, “la connessione continua porta a una nuova solitudine. Ci rivolgiamo alle nuove tecnologie per riempire il vuoto, ma mentre la tecnologia aumenta, la nostra vita emotiva diminuisce”.

  1.  Il secondo problema è che le reti prediligono le emozioni come via di conoscenza e di motivazione personale. La narrativa particolare dei canali digitali condiziona fortemente il modo in cui questi  trasmettono le conoscenze. Come è noto, i Social Media offrono fondamentalmente brevi contenuti audiovisivi e immagini ritoccate per renderle più interessanti. Questi contenuti vengono rinnovati in continuazione, per cui quando qualcosa ci annoia o non cattura la nostra attenzione, soltanto dobbiamo scorrere con il dito per ottenere altre novità. Questo è lo stesso meccanismo persuasivo delle slot machine, che generano sempre nuove aspettative in chi le usa. 

In questo modo, nelle reti sociali l’acquisizione di conoscenze si basa molto sulle emozioni (belle fotografie, video divertenti, situazioni ridicole o frasi a effetto) e non tanto sui ragionamenti. Delle tre fasi della conoscenza individuate da Tommaso d’Aquino -percezione, riflessione e giudizio–, le reti sociali stimolano molto la prima, e non lasciano spazio per le altre due. I problemi di concentrazione o di impazienza tra i più giovani sono una conseguenza logica di aver abituato la mente a una sparatoria di emozioni a raffica. Il prezzo da pagare è che questi messaggi emozionali sui social non lasciano una traccia profonda sui ragazzi, perché come diceva Cicerone: “Niente asciuga più veloce di una lacrima”.

  1.  Il terzo e ultimo problema a cui farò riferimento è che le reti polarizzano le opinioni e aumentano la sfiducia, anche quella intergenerazionale. È dimostrato che le reti sociali diffondono con più facilità le disinformazioni (misinformation) che le informazioni. In esse, le opinioni o notizie estreme si viralizzano con più forza, rinforzando le tensioni e allontanando da noi chi la pensa in modo diverso. Inoltre, l’anonimato proprio delle reti favorisce la de-individualizzazione -la perdita del senso individuale di sé-, il che aumenta la volontà di unirsi alla folla. Valori come il rispetto o la tolleranza perdono importanza quando chi contraddice le nostre idee non ha un volto definito.

Anche se la sfiducia verso l’autorità è stata sempre propria dei giovani, nelle reti sociali questa sfiducia contiene un elemento in più: le nuove generazioni sono consapevoli di vivere una realtà tecnologica e culturale completamente diversa degli adulti. Questi fanno più fatica a trasmettere sapere, in particolare sapere etico, perché sembrano frequentare mondi diversi. Ad esempio, molti giovani ascoltano con interesse le opinioni di influencers come Khaby Lame, Me Contro Te, iPantellas, Daniele Vitale Sax… Questi influencers sono trasmettitori di valori per migliaia di giovani italiani, e perfetti sconosciuti per tanti altri migliaia di adulti. 

Divisione, superficialità o solitudine sono alcuni dei limiti delle reti. In questo grafico pubblicato per la rivista The Times si mostrano altri limiti, segnalati dagli stessi giovani: il sonno, il bulling, eccetera. 

Possiamo concludere questa parte con una citazione di Turkle che riassume i limiti delle reti sociali: “Le tecnologie sono seducenti -dice- quando ciò che offrono incontra le nostre umane vulnerabilità”. 

  1. Possibilità delle reti sociali

 Quanto detto finora ci invita a sospettare delle reti sociali in quanto ambiti ideali per la trasmissione e la crescita dei valori. Invece, qualcosa di buono devono offrire se tante persone le hanno incorporate nella loro vita quotidiana. Come altre forze che abbiamo saputo domare -il fuoco o la radioattività, per esempio- anche i Social Media possono diventare uno strumento positivo se riusciamo a mantenere il controllo, stabiliamo i limiti e diamo loro una direzione precisa. Anche in questo caso, l’efficacia tecnologica deve essere limitata dal criterio etico.

In internet, molte delle conseguenze negative elencate prima erano state esperienze positive in qualche momento della vita dei loro protagonisti, ma sono diventate dannose perché a un certo punto la tecnologia prese il sopravvento. 

Serve, pertanto, mettere limiti alla tecnologia. Questi limiti possono essere di diverso tipo, ma i più frequenti sono di due tipologie: ritagliare il loro uso, oppure proporre alternative. Nel primo caso, utile tra i più giovani, si può limitare la potenza del telefono -un dispositivo più lento e meno potente è meno efficace tecnologicamente-, si può imporre un limite di tempo all suo uso, oppure si possono installare sui dispositivi delle apps che bloccano i Social dopo un certo momento.  

Sono però più efficaci le proposte alternative, che equilibrano l’attività virtuale con la sana interazione con la realtà fisica: un giovane con una vita familiare serena, un buon gruppo di amici o passioni sportive o intellettuali avrà sempre punti di riferimento diversi che aiuteranno a bilanciare l’insaziabile persuasione della rete. Chi ha la fortuna di contare su questi sostegni esterni, può ricavare molto beneficio della propria attività nelle reti sociali. Quando i giovani non hanno ancora le capacità di trovare interesse in queste alternative e vengono richiamate dalle promesse virtuali, è compito dell’educatore insistere con queste proposte fino a diventare ancora più persuasivi della tecnologia. È una sfida grande ma necessaria.

Per chi riesce ad avere un approccio equilibrato con le reti, queste possono diventare un ambito di crescita nei valori. Seguendo lo schema proposto finora, ripassiamo le tre aree su cui ci siamo concentrati:

  1. Contro la fragilità del singolo, le reti sociali possono essere per molti giovani un’occasione per approfondire e per mantenere il contatto con i propri amici, conoscere altri utenti e ispirarsi in persone esemplari che altrimenti non avrebbero mai incontrato. Nello studio pubblicato nel 2017 da The Economist i giovani tra 14 e 24 anni consideravano le reti sociali come un canale di espressione, aiuto emozionale e rinforzo delle amicizie. In rete possiamo trovare chi condivide le nostre idee e chi ha vissuto le difficoltà che noi attraversiamo o chi ci aiuta a vedere i problemi da una buona prospettiva. 
  2. In secondo luogo, sebbene abbondi la comunicazione emotiva, la quantità di contenuti a cui siamo esposti fanno delle reti sociali uno scenario per stimolare la creatività e aprirsi a nuove idee. 

Sebbene ci sia un eccesso di informazioni e si sia più esposti alla disinformazione, è anche vero che abbiamo a portata di mano conoscenze di una qualità mai sognata. Per le persone con inquietudini, assistere a una lezione di un professore di Harvard, ascoltare una conferenza sulla musica del secolo XX o un Ted Talk su qualsiasi argomento di attualità sono opportunità sempre disponibili.

  1. Per ultimo, anche se viviamo in una società più scontrosa, chi abita in rete è abituato al lavoro collaborativo. Nel libro “Perché la rete ci rende intelligenti”, Howard Rheingold dimostra che internet ci aiuta a sviluppare una maggiore capacità di partecipazione, e ci spinge a coltivare valori come l’ascolto o il rispetto. Infatti, abbiamo già accennato alla maggior flessibilità, apertura mentale e assenza di pregiudizi delle nuove generazioni. 

* * *

Ci sono luci e ombre nella persuasione tecnologica. Non possiamo avere uno sguardo ingenuo verso di essa, ma ugualmente inutile sarebbe un rifiuto categorico. Ho cominciato il mio intervento ricordando il ritorno a casa di Ulisse. Nella società contemporanea e in ambito digitale, molti siamo in viaggio, alla ricerca di un destino, portati di qua e di là, come il re di Itaca. Nella confusione e nelle possibilità introdotte dalle tecnologie digitali intravediamo pericoli, ma anche correnti che ci possono portare a casa, cioè, a una vita riuscita.

Vorrei finire con il paragrafo che chiude il brano dell’Odissea menzionato prima, dove i pericoli del viaggio trovano senso nell’abbraccio finale di Penelope: “Abbracciava la sposa fedele, come i naufraghi desiderano la terra; in pochi si salvarono dal mare nuotando (…), scampando alla morte; così tanto era desiderato per lei lo sposo mentre lo guardava, e dal collo non gli staccava le braccia candide”.

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